La spesa sfusa: stop ai rifiuti

La spesa sfusa: stop ai rifiuti

Il supermercato mi sta un po’ stretto; l’impossibilità di rifiutare imballaggi voluminosi, pieni di plastica e inutilmente inquinanti mi risulta difficile da digerire. Basta farsi un giretto veloce tra le infinite isole e le corsie del supermercato per notare quanto packaging usa e getta acquistiamo insieme alla nostra spesa; imballaggio che non farà altro che capitolare direttamente nel nostro cestino una volta arrivati a casa. Insomma, spreco su spreco.

Questo perché le confezioni degli alimenti o detersivi che acquistiamo hanno vita molto breve e costituiscono la maggior parte dei nostri rifiuti. Se poi consideriamo che non tutti gli imballaggi sono effettivamente riciclabili, ecco che avviene il “patatrac” ecologico.

Preferisco quindi, quando posso, indirizzarmi verso il meraviglioso mondo della “spesa sfusa”; Fortunatamente di negozi “sfusi”, senza imballaggi e/o plastica ne esistono a bizzeffe, soprattutto a Torino – città che devo dire sta facendo dei passi in avanti importanti in teme di sostenibilità, riconosciamoglielo!

Un altro aspetto da non sottovalutare è il prezzo. Trattandosi di spesa sfusa, nella maggioranza dei negozi, pagherete sempre e soltanto il contenuto, il prodotto fisico che acquistate. Non vi sobbarcherete quindi i costi di produzione degli imballaggi, perché, banalmente NON CE NE SONO!

Perciò, cari Torinesi, armatevi di carta (mi sembra doveroso, soprattutto in questo caso, dire “riciclata”) e penna che vi lascio una lista di posti in cui fare la vostra spesa sostenibile, evitando sprechi ed imballaggi!

1. Negozio Leggero (Via S. Tommaso 5) – ve ne avrò parlato forse una sessantina di volte sul mio Instagram (non sono per nulla ripetitiva io, assolutamente), ma qui si trova praticamente tutto l’occorrente necessario per una vita più ecologica, anche le uova biologiche di campagna ed il pane realizzato artigianalmente, tramite progetto di economia carceraria. Insomma, pane – letteralmente – per i denti degli “ipersostenibili”.

2. Idee Sfuse (Corso Moncalieri 252/D) – anche qui tanto cibo, soprattutto semi, legumi, spezie e tanto plastic free. Da provare: il caffè tostato artigianalmente, con monorigini e miscele, della Torrefazione torinese “Boutic Caffè” – tra i Maestri del Gusto 2019-20.

3. Antica Spesa (Via Carlo Capelli 21 bis) – legumi a volontà, ma anche tè, tisane, cioccolato e caramelle! Eventualmente, se fate fatica ad alzarvi del divano di casa, esiste anche il loro online shop: spesa sfusa e spesa comoda.

4. Verdessenza (Via San Pio V 20/F) – prodotti sfusi, a filiera corta e con certificazione biologica (ergo, qui trovate anche la frutta e la verdura sfusa, provenienti dai produttori locali, attenti alla qualità ed alla produzione bio). Hanno anche messo su un interessante progetto a “abbasso impatto” ambientale, con cui riforniscono aziende, esercizi di ristorazione ed eventi. Smart and cool, that’s why we like ‘em!

5. L’Indispensario (Piazza De Amicis 80/C)– qui trovate diverse​​​​ farine biologiche e spezie di varia provenienza, ma anche super foods e frutta secca/disidratata. Qui sono venduti anche saponi di autoproduzione.

Per chi vive in altre città italiane – e questo post non vi ha saputi accontentare adeguatamente – vi (stra)consiglio di consultare il sito di @retezerowaste: trovate una mappa interattiva con negozi per la spesa sfusa in tutta Italia. Non dite che non vi avevo avvisato!

Attenti al Greenwashing! Breve guida su come salvarsi

Attenti al Greenwashing! Breve guida su come salvarsi

Difficile essere immuni al greenwashing, a questa efficace strategia di comunicazione e marketing attuata da moltissimi brand e multinazionali. Ma cosa vuol dire davvero “fare greenwashing”? Da decenni ormai, le aziende hanno cercato di costruire un’immagine di sé, del proprio marchio sempre più positiva, sostenibile e pulita, in modo tale da nascondere – sotto al tappeto – il marcio produttivo che in realtà si cela dietro.

Un’immagine aziendale che sia quindi vicina alla questione etica ed ambientale in superficie, ma che nasconde una realtà produttiva ben diversa, tutt’altro che green. Si tratta di pubblicità ingannevole che fa leva sull’ormai ostica tematica della sostenibilità.

Di esempi disgraziatamente ne è pieno il mondo. Vi riporto qui solo alcuni dei tantissimi esempi che ci propinano ogni giorno.
La borsa in cotone biologico grezzo, indiano, proposta da Muji. La “conscious collection” di H&M con il 50% minimo di materiali riciclati, organici o in tencel. Le bottiglie di Coca-Cola in plastica riciclata dagli oceani, recuperata, in questo caso, dalle acque marine e dalle spiagge inquinate. Tuttavia, non si tratta di una produzione su larga scala quanto di una prova dimostrativa E PUBBLICITARIA. SOLO 300 bottiglie di Coca-Cola sono state realizzate utilizzando SOLAMENTE il 25% di plastica riciclata, recuperata dalle coste del Mediterraneo.

Essenzialmente, le big corporation ed aziende stanno cercando di smacchiare il più possibile il loro nome dall’onta dell’insostenibilità, facendo leva su argomenti centrali degli ultimi anni: ambiente e condizioni dei lavoratori.

Necessaria mi sembra quindi una breve guida per evitare di cascare come delle pere di fronte al fenomeno pubblicitario del greenwashing:

1. Siate più furbi: un’azienda che inquina terribilmente per far vagonate di soldi non si trasformerà dal giorno alla notte in un’azienda green! Lanciare una o due collezioni all’anno improntate sul concetto di “eco-friendly” non farà necessariamente di quella azienda un esempio di sostenibilità ambientale (Ex. Collezione “Conscious” di H&M).

2. Biodegradabile non significa necessariamente COMPOSTABILE. Ve lo avevo già detto mesi fa: è necessario comprendere questa differenza, perché non si tratta assolutamente di sinonimi intercambiabili. Compostabilità = capacità di un materiale organico di trasformarsi in compost (terriccio ricco di sostanze organiche, impiegato come fertilizzante). Biodegradabilità = capacità di un materiale o sostanza di degradarsi in composti più piccoli come acqua, anidride carbonica e metano. Se è vero quindi, che tutto ciò che è compostabile, è biodegradabile; non altrettanto vero è che tutto ciò che è biodegradabile è anche compostabile.

3. Ingredienti definiti come “naturali” non sono strettamente vegetali. In questa dicitura rientrano anche arsenico, mercurio etc. Tutti elementi, certo, riscontrabili in natura, ma non propriamente green!

4. Leggere bene le etichette fronte e retro: diciture come “cotone organico” ed “eco-friendly”, o semplicemente un packaging accattivante e/o verde, non vogliono dire nulla di concreto o affidabile se poi sul retro non troviamo certificazioni reali. Eccovi un suggerimento spassionato di lettura a riguardo. Breve, conciso e comprensibile anche chi non mastica di marketing. Il testo, “Green marketing” di Fabio Iraldo e Michela Melis, è soprattutto indirizzato alle aziende che vogliano comunicare la propria attenzione all’ambiente, ma mi sento di consigliarlo a chiunque voglia immergersi nel mondo “green”.

Perché il sostenibile costa di più?

Perché il sostenibile costa di più?

Quando si parla di sostenibilità, la critica che sento è sempre la stessa:

Eh, però questi prodotti attenti all’ambiente costano troppo, non ti pare?

Ecco, mi spiace scomodare anche solo per un attimo il saggio Oscar Wilde, ma qui mi pare proprio opportuno. Il buon vecchio Oscar, ormai qualche tempo fa, scrisse che “tutti conoscono il prezzo di tutto, ma nessuno conosce il valore di niente”. Questo aforisma, assai valido nell’Ottocento, direi che risulta ad oggi ancora attualissimo.

Nel mercato globale odierno, ormai saturo, emergere e distinguersi dalla concorrenza (spietata) è sempre più complesso. Anche per gli stessi consumatori, leggere le etichette – e cercare di decifrarle – ed interpretare le certificazioni o la provenienza degli ingredienti è un’azione pressoché impossibile. Soprattutto quando la stragrande maggioranza dei consumatori si concentra su un solo fattore: il prezzo.

McDonald’s vende il suo celebre Big Mac, un panino completo di carne, con tanto di aggiunte e salse, a soli 2,50€. Nella mente di un consumatore quindi attento al prezzo, tutto ciò che costa più di questa cifra, anche se più sostenibile, diventa inspiegabilmente costoso.

Ma se vi dicessi che, paradossalmente, un Big Mac ci costa di più rispetto ad un qualsiasi panino di un ristorante “sostenibile”? Mi predereste per pazza?

Qual è il vero valore di un Big Mac?

Secondo le stime, dietro all’infausto panino si nasconde un’impronta ecologica altissima. McDonald’s determina ogni anno, con la sola produzione di questo panino, emissioni inquinanti gigantesche (negli USA, produce 1,2 milioni di tonnellate di CO2). A ciò si aggiungono anche l’impatto ambientale dello sfruttamento delle falde acquifere, l’impoverimento del suolo, i costi sanitari del trattamento di malattie dovute ad abitudini alimentari poco felici.

McDonald’s però non paga nulla di tutto ciò. Nessuno di questi costi si riflette sul prezzo che paghiamo quando ordiniamo la nostra scontatissima cena al McDonald’s. Però qualcuno questi costi li dovrà pur pagare, no?

Questo qualcuno siamo proprio noi. O meglio, la società nella sua interezza, che paga i costi dei disastri ambientali, delle migrazioni climatiche, le conseguenze sanitarie dell’obesità e malattie cardiovascolari.

Se pensate che tutto ciò sia una barzelletta mal raccontata, pensate anche che la carne degli hamburger McDonald’s è ingrassata in gran parte a mais, una delle coltivazioni più incentivate da parte dei governi del mondo e soprattutto negli USA. Il mais “sussidiato” negli Stati Uniti fa risparmiare in media 562 milioni di dollari all’anno ad aziende come McDonald’s. In più, i costi della sanità pubblica per curare le malattie legate all’alimentazione ed eccessivo consumo di carne si aggirano attorno ai 30-60 miliardi di dollari annui negli USA.

Se dovessimo sommare quindi tutti questi costi, sociali ed ambientali, nascosti, un semplice Big Mac dovrebbe costare all’incirca 200€. Per rispondere quindi alla domanda iniziale, i beni e servizi prodotti in maniera sostenibile sembrano più cari, perché i loro equivalenti più economici vanno a risparmio nel breve periodo, ma a lungo termine generano costi che dovranno essere poi pagati e sostenuti da noi tutti.

Insomma, un Big Mac ti dà l’impressione di star risparmiando oggi, ma un domani (nemmeno poi così lontano, francamente) pagherai un conto salato per ciò che hai mangiato.

Come la produzione di soia devasta il Sud-America e l’intero globo

Come la produzione di soia devasta il Sud-America e l’intero globo

Dagli anni ’50 ad oggi la produzione di soia nel mondo è cresciuta a una velocità irrefrenabile, passando da 16 milioni di tonnellate all’anno a 352 milioni (dati FAO, 2017).

Una crescita esponenziale quella del mercato della soia, che non è però causata dall’aumento della domanda di prodotti a base di soia, per l’alimentazione umana. Iniziamo quindi a sfatare un primo mito: non sono esattamente i “vegani malefici”, tanto affamati di questo legume, a distruggere il mondo.

Quindi dove va a finire tutta questa soia?

Guardando come sempre ai dati – oh grandissimi numeri, cosa faremmo senza di voi -, si scopre che la soia prodotta in tutto il mondo è destinata per il 70% ai mangimi necessari per nutrire suini (soprattutto negli allevamenti intensivi, anche in quelli italiani).

Ecco come la soia viene consumata quotidianamente da ognuno di noi, per vie indirette, e finisce nei nostri piatti sotto forma di carne, uova e prodotti caseari.

La soia è infatti un legume altamente proteico, la cui farina è alla base della dieta di ormai quasi i tutti gli animali impiegati in zootecnica ed allevamento. Semplicemente, la amiamo tanto perché fa crescere la muscolatura animale più in fretta e permette di far arrivare sulle nostre tavole la carne nel più breve tempo possibile.

A partire dagli anni ’50, insieme alla produzione di soia, è cresciuto nel mondo anche il consumo di carne, in modo particolare in Cina. Qui vengono allevati e macellati ogni anno 700 milioni di maiali (in Italia “solo” 9 milioni). Si consuma e si commercializza così tanta carne, che per essere prodotta e consumata questa ha bisogno di essere allevata con tanta, tantissima soia.

Ed ecco che sorge il primo problema: il Paese non ha una superficie coltivabile sufficiente per produrre la quantità necessaria di soia per gli allevamenti e perciò risolve abilmente la questione importando tonnellate di soia principalmente dal Sud America.

Proprio qui sorge quella che chiamiamo la “Repubblica Unita della Soia”. In Sud America, tra Bolivia, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, sono state realizzate negli ultimi 30 anni enormi distese dedicate alla sola monocoltura di soia. Le foreste del Sud America, nonostante le migliaia di km a separarli, si intrecciano e si legano indissolubilmente con la produzione intensiva di carne suina in Cina, comportando conseguenze devastanti.

La produzione è poi in mano a grandi aziende che, di fatto, lavorano in quasi totale assenza di manodopera, grazie all’impiego di aerei per la distribuzione dei diserbanti e di mietitrebbiatrici per la raccolta. Nella
“Repubblica Unita della Soia” difficilmente si incontra un’anima viva.

Si osserva quindi un enorme processo di industrializzazione forzata delle campagne ed una conseguente distruzione di ecosistemi: gigantesche distese vuote di campi e spazi ora disabitati, adibiti esclusivamente
alla coltivazione di un legume che finirà nelle pance e negli stomachi di suini dall’altra parte del globo.

Il prezzo da pagare per tutto ciò è alto. Oggi la vegetazione, la foresta non c’è più, c’è solo più soia. I campi hanno soppiantato il “Mato Grosso” (la foresta spessa brasiliana), spazzando via alberi, biodiversità e sistemi sociali ed ambientali. Il mercato chiede sempre più carne, sempre più soia, sempre più foresta. Le dosi di insettici, fertilizzanti e pesticidi impiegati in queste monoculture si fanno sempre più massicce. Quanto ancora la Terra riuscirà ad assorbirle non è dato sapersi. Quanto ancora questo sistema reggerà tantomeno.

Nel documentario Soyalism, di Stefano Liberti e Enrico Parenti, la lunghissima filiera produttiva di soia viene smantellata ed eviscerata. Un sistema iniquo, estremamente industrializzato e fortemente insostenibile, che genera conseguenze devastanti per ambiente, individui ed animali.

Quanto conoscete le vostre uova?

Quanto conoscete le vostre uova?

Sapete che le uova ci parlano? Questo fatto strabiliante ha avuto inizio nel 2005, grazie al Regolamento CE 2295 del 2003 che ne ha reso obbligatoria per legge la timbratura del guscio. Questi numeri colorati – o meglio, codici alfanumerici – (generalmente rossi o verdi) ci permettono di capire molto sulle uova che acquistiamo e consumiamo ogni giorno.

Innanzitutto, la provenienza, ma anche il tipo di produzione. Sì, perché non tutte le uova sono uguali e non tutte le galline vivono allo stesso modo.

Facciamo un po’ di chiarezza.

Le uova presentano appunto un codice sul loro guscio – ad esempio, l’uovo che ho comprato ieri, al supermercato dietro casa mia, presenta la scritta “0 IT 009 FO 290”.

Le due cose più importanti sono il primo numerino e le due lettere subito dopo (nel mio caso 0 IT), che fanno proprio riferimento al luogo ed al tipo di produzione di quel specifico uovo che ho in mano.

– 0: il magico numero, quello a cui dovremmo aspirare tutti. Indica l’ALLEVAMENTO BIOLOGICO – ovvero un sistema produttivo che vede le galline stare all’aperto per alcune ore al giorno, circondate dalla vegetazione viva. In questo caso il benessere animale è più rispettato poiché le norme prevedono lo stanziare una 1 gallina ogni 10 metri quadrati!

– 1: ALLEVAMENTO ALL’APERTO, ovvero galline che possono razzolare un po’ all’aperto ed un po’ al chiuso, con 1 gallina per ogni 2,5 metri quadrati – allevate in maniera comunque sempre intensiva, con mangimi non biologici. Per ogni ettaro a cielo aperto possono essere tenuti un massimo di 2.500 galline ovaiole: una superficie per singolo animale che tocca i 4 m².

– 2: ALLEVAMENTO A TERRA, che vuol dire tutto e niente, nonostante il nome della tipologia di allevamento ci faccia pensare a una prateria di galline ovaiole scorrazzanti o al pollaio di nostra nonna. Le galline stanno sempre in capannone, non vedono l’esterno e troviamo fino a 9 galline per metro quadrato. Possono esprimere pochi movimenti e comportamenti naturali, ma perlomeno la legge impone che il pavimento del pollaio sia cosparso per almeno un terzo della sua superficie di granaglie per di beccare e “razzolare”.

– 3: L’inferno me lo immagino così: ALLEVAMENTO IN GABBIA, con 13 galline per metro quadrato, al chiuso, senza MAI vedere la luce del sole; queste depositano le uova su un nastro trasportatore. Chiaramente, questo genere di allevamento prevede l’impiego di luce artificiale, utilizzata a cicli e non in continuo, in modo tale che gli animali possano riposare dopo ogni periodo di “attività”. Vivono su un pavimento costituito da una griglia, con zero vegetazione viva. Dato allarmante: questo genere di allevamento rappresenta il 62% del settore.

La frustrazione per il non poter razzolare causa comportamenti ossessivi ed aggressivi negli animali, i quali finiscono per lesionare se stessi o altre galline. Per ridurre tale evenienza, nel tempo si è giunti ad impiegare la pratica del debeccaggio: si taglia via fino a un terzo del becco, in Europa, e lo si effettua con una lama arroventata o un fascio a infrarossi. Tuttavia, il becco è un organo complesso; contiene nervi e recettori, perciò il debecaggio non è sicuramente indolore e può lasciare ferite aperte e sanguinolente.

Inutile dirvi che i danni fisici e mentali agli animali sono notevoli, ma questi influiscono anche sulla qualità stessa del prodotto – le galline producono tante uova, ma dallo scarso valore nutrizionale.

Allora, quanto conoscete le vostre uova?