Attenti al Greenwashing! Breve guida su come salvarsi

10 Mar 2020

Greenwashing

Difficile essere immuni al greenwashing, a questa efficace strategia di comunicazione e marketing attuata da moltissimi brand e multinazionali. Ma cosa vuol dire davvero “fare greenwashing”? Da decenni ormai, le aziende hanno cercato di costruire un’immagine di sé, del proprio marchio sempre più positiva, sostenibile e pulita, in modo tale da nascondere – sotto al tappeto – il marcio produttivo che in realtà si cela dietro.

Un’immagine aziendale che sia quindi vicina alla questione etica ed ambientale in superficie, ma che nasconde una realtà produttiva ben diversa, tutt’altro che green. Si tratta di pubblicità ingannevole che fa leva sull’ormai ostica tematica della sostenibilità.

Di esempi disgraziatamente ne è pieno il mondo. Vi riporto qui solo alcuni dei tantissimi esempi che ci propinano ogni giorno.
La borsa in cotone biologico grezzo, indiano, proposta da Muji. La “conscious collection” di H&M con il 50% minimo di materiali riciclati, organici o in tencel. Le bottiglie di Coca-Cola in plastica riciclata dagli oceani, recuperata, in questo caso, dalle acque marine e dalle spiagge inquinate. Tuttavia, non si tratta di una produzione su larga scala quanto di una prova dimostrativa E PUBBLICITARIA. SOLO 300 bottiglie di Coca-Cola sono state realizzate utilizzando SOLAMENTE il 25% di plastica riciclata, recuperata dalle coste del Mediterraneo.

Essenzialmente, le big corporation ed aziende stanno cercando di smacchiare il più possibile il loro nome dall’onta dell’insostenibilità, facendo leva su argomenti centrali degli ultimi anni: ambiente e condizioni dei lavoratori.

Necessaria mi sembra quindi una breve guida per evitare di cascare come delle pere di fronte al fenomeno pubblicitario del greenwashing:

1. Siate più furbi: un’azienda che inquina terribilmente per far vagonate di soldi non si trasformerà dal giorno alla notte in un’azienda green! Lanciare una o due collezioni all’anno improntate sul concetto di “eco-friendly” non farà necessariamente di quella azienda un esempio di sostenibilità ambientale (Ex. Collezione “Conscious” di H&M).

2. Biodegradabile non significa necessariamente COMPOSTABILE. Ve lo avevo già detto mesi fa: è necessario comprendere questa differenza, perché non si tratta assolutamente di sinonimi intercambiabili. Compostabilità = capacità di un materiale organico di trasformarsi in compost (terriccio ricco di sostanze organiche, impiegato come fertilizzante). Biodegradabilità = capacità di un materiale o sostanza di degradarsi in composti più piccoli come acqua, anidride carbonica e metano. Se è vero quindi, che tutto ciò che è compostabile, è biodegradabile; non altrettanto vero è che tutto ciò che è biodegradabile è anche compostabile.

3. Ingredienti definiti come “naturali” non sono strettamente vegetali. In questa dicitura rientrano anche arsenico, mercurio etc. Tutti elementi, certo, riscontrabili in natura, ma non propriamente green!

4. Leggere bene le etichette fronte e retro: diciture come “cotone organico” ed “eco-friendly”, o semplicemente un packaging accattivante e/o verde, non vogliono dire nulla di concreto o affidabile se poi sul retro non troviamo certificazioni reali. Eccovi un suggerimento spassionato di lettura a riguardo. Breve, conciso e comprensibile anche chi non mastica di marketing. Il testo, “Green marketing” di Fabio Iraldo e Michela Melis, è soprattutto indirizzato alle aziende che vogliano comunicare la propria attenzione all’ambiente, ma mi sento di consigliarlo a chiunque voglia immergersi nel mondo “green”.