Perchè adottare un alveare non salverà le api

Perchè adottare un alveare non salverà le api

Quella tra impollinatori, gli uomini e le piante è una danza straordinaria. Un gioco in cui vincono tutti i partecipanti. Gli insetti, tra cui anche le api mellifere, si nutrono di nettare e polline, favorendo la fecondazione dei fiori. Insieme a uccelli particolari, come i colibrì, gli insetti si occupano della stragrande maggioranza dell’impollinazione. Agricoltura e natura dipendono da loro, è vero. E tutto accade in maniera contemporaneamente magica e intelligente; non svolazzano da un tipo di fiore a un altro; per intenderci, non volano da un pesco a melo, perché così non impollinerebbero un bel nulla. Seguono invece la danza della stessa pianta, senza commettere errori. Però chiediamoci: perchè continuiamo a sentirci dire che “dobbiamo salvare le api”? Sono davvero a rischio estinzione? E adottare un alveare ci metterà al riparo dalle conseguenze della scomparsa delle api?

Quando parliamo di impollinazione, generalmente pensiamo al ruolo svolto dalle api. Non distinguiamo però tra api selvatiche e api domestiche. Ci piace raggrupparle tutte in un solo calderone, non pensando che la zuppa di informazioni che ne uscirà sarà poco completa o trasparente. Il declino delle api non riguarda le api allevate (generalmente l’ape nera, l’ape ligustica e l’ape carnica in Italia). Questo allevamento avviene per produrre miele, polline, pappa reale, propoli – tutti ingredienti del superorganismo che è l’alveare. Trattandosi di forme di allevamento di animali selvatici, queste api dipendono dall’uomo e dal lavoro dell’apicoltore. Se qualcosa andasse storto, la mano “visibile” umana potrebbe alleviare le loro sofferenze, con interventi di recupero nei casi di estrema necessità (soprattutto in allevamento biologico). Non sono quindi le api comuni, quelle allevate o considerabili come domestiche, a dover essere salvate. Hanno anche loro i propri patimenti – cambiamento climatico, varroa e parassiti, scarsa qualità del polline e nettare, limiti alla biodiversità – ma potranno sempre contare sul lavoro degli apicoltori (che andrebbero comunque tutelati). Le gravi perdite si registrano altrove, in altre specie e sottospecie di imenotteri e apoidei. Ad esempio, i bombi – più grossi delle api, ma comunque altrettanto simpatici – sono impollinatori fondamentali per la sicurezza alimentare umana: promuovono la biodiversità, ma allo stesso tempo dipendono da essa.

COSA CONTRIBUISCE AL DECLINO?

Ci dicono che per “salvare le api” dobbiamo adottare alveari. Eppure, nonostante i nostri sforzi e il nostro impegno all’acquisto, gli impollinatori nel mondo stanno sparendo; gli apoidei sono indeboliti dalla progressiva scomparsa delle leguminose, piante con un polline altamente proteico! Erba medica, foraggio, trifoglio e crucifere lasciano spazio a monocolture intensive di soia e altri cereali. Adesso il polline agricolo è di scarsa qualità o il nettare è insufficiente. Così gli imenotteri si indeboliscono, diventando più suscettibili all’azione dei pesticidi sparati nei campi.

Possiamo dire che gli impollinatori del mondo sono esposti a rischi sempre più alti. A questo aggiungiamo un’altra conseguenza dell’intervento umano: il cambiamento climatico di natura antropica. Le api hanno una straordinaria capacità di adattamento: sanno quando è ora di smettere di bottinare e sono in grado di sopravvivere a freddi, freddissimi inverni facendo il glomere – una “palla di api” si forma tenendo al centro, cioè al caldo, le api più giovani e la regina. Le api più vecchie, quelle che comunque non arriverebbero a primavera, si dispongono all’esterno, proteggendo le altre. Sono capaci di difendersi anche dal caldo, ventilando l’alveare quando è necessario. Sono particolarmente adattabili, ma questi cambiamenti seguono il lentissimo e graduale ritmo della genetica. Mentre il riscaldamento globale, gli eventi atmosferici sempre più improvvisi, le precipitazioni violente, le estati torride e l’accorciarsi della stagione primaverile mettono a serio rischio l’adattabilità degli apoidei e la disponibilità del loro cibo in natura. Alcune specie di imenotteri poi non possono contare sulle diverse funzioni svolte dalla famiglia o sul glomere. Torniamo a parlare di bombi. I bombi comprendono 53 specie in Europa. A seconda della specie, una colonia di bombi è composta da circa 50 a 600 esemplari e da una regina. La regina è l’unica femmina fertile da cui dipende quindi la sopravvivenza della colonia. In genere tutti gli esemplari di una colonia non sopravvivono all’inverno, solo le femmine fecondate superano i mesi freddi (in cavità nel terreno, negli alberi morti o nelle fessure tra muri a secco) e in primavera si risvegliano e iniziano a raccogliere nettare e polline. Tuttavia, con l’irrigidirsi degli inverni e le improvvise gelate anche in primavera, le regine faticano a superare la cattiva stagione. Se muore una regina, però, muoio anche le possibilità di riprodursi della nuova famiglia.

Gli impollinatori dipendono dalle abitudini dei vegetali; dallo scorrere delle stagioni, dalla fioritura delle piante, dalla disponibilità e competizione naturale per il polline e nettare. E noi stessi dipendiamo dal lavoro svolto a titolo gratuito dagli impollinatori. Dal loro lavoro dipende la nostra sussistenza economica, nel caso degli apicoltori, e la nostra sussistenza alimentare, nel caso della produzione agricola. I cambiamenti climatici stanno rendendo la vita parecchio difficile a tutti. Se la stagione dovesse essere troppo secca, i fiori non fioriscono o comunque producono meno nettare e polline, lasciando molti impollinatori a bocca asciutta. Le improvvise gelate a metà primavera, poi, distruggono la disponibilità di fiori e perciò di nettare. L’equilibrio naturale ci fa stare sul filo di un rasoio: le possibili combinazioni di guai e disastri sono molteplici. Tocca fare attenzione. Sarebbe quindi bene ricordarsi dell’importanza di questi insetti anche per la nostra sopravvivenza e sussistenza, soprattutto nella Giornata Mondiale delle Api, dove ape = apoidei. Per un Pianeta più pulito per tutti, impollinatori compresi.

PERCHÈ ADOTTARE ALVEARI POTREBBE ESSERE CONTROPRODUCENTE?

Le api allevate per uso produttivo possono diventare nemici competitori e mettere in pericolo altre specie di api selvatiche. L’ape domestica è in grado di metter su una forte competizione per la bottinatura. Se la disponibilità di nettare e polline in natura è 100, allora la nostra ape vorrà quel 100 e farà di tutto per ottenerlo. Introdurre alveari in maniera sconsiderata potrebbe limitare le capacità di reperire risorse vitali degli altri impollinatori presenti nella stessa area. Consideriamo poi che il business dell’adozione degli alveari giova prevalentemente al fornitore  di servizi e piattaforme web. Per mettere il proprio alveare in adozione, l’apicoltore dovrà obbligatoriamente acquistare l’attrezzatura fornitagli dalla piattaforma, spendendo all’incirca 500€. Questa apparecchiatura brevettata serve a monitorare la vita delle api all’interno dell’alveare, minimizzando le perdite. Solo attraverso l’acquisto, l’apicoltore potrà iscriversi alla piattaforma e mettere in adozione le proprie api, vendendo il miele. In che modo staremmo aiutando bombi e api selvatiche, esattamente? A mio avviso, si tratta di marketing verde selvaggio; si cavalca l’onda della disinformazione per generare profitti per sé. Per aiutare gli apicoltori dobbiamo intervenire sui cambiamenti climatici e sul nostro modo di produrre cibo, facendo agricoltura.

COME SI FA IL MIELE? ESISTE CRUDELTÀ NEI CONFRONTI DELL’ANIMALE?

Passiamo ad argomenti più felici, cercando di capire cosa sia il miele e se alle api domestiche venga rubato loro il frutto del loro lavoro, con spietata crudeltà. Le api bottinatrici raccolgono il nettare con la lìgula e lo trasportano fino all’alveare nella borsa melaria: una parte del loro cavo addominale, nella quale il nettare inizia a mescolarsi con gli enzimi dell’ape. Una volta arrivate a casa, le api iniziano a passarsi quella preziosa sostanza di lìgula in lìgula, trasformandola in materia meno liquida e ben più viscosa. Così è come ottengono (e perciò anche noi umani riceviamo) il miele, un prodotto dall’alta conservabilità, ricco di nutrienti zuccheri e povero di acqua. Chi dice che gli apicoltori rubano il miele alle api ha una visione parziale della situazione. In realtà, l’ape mellifera ha la caratteristica di produrre miele in quantità, come se la bella stagione non dovesse finire mai. Per questo motivo, le scorte di miele non sono commisurate alla dimensione della famiglia, ma alla dimensione dell’alveare. Più spazio c’è nell’alveare, più l’ape mellifera produce, cercandosi polline e nettare in lungo e in largo. Tuttavia, la famiglia non sarebbe mai in grado di consumare tutto quel cibo prodotto in un alveare da queste api iperattive e iper laboriose. Ecco quindi che il ruolo dell’apicoltore torna ben utile. Siamo quindi ben lontani da concepire le api come macchinari da impollinazione o come macchine da miele; qui in Italia poi non facciamo interventi in agricoltura con trattamenti a fiore aperto proprio per limitare le perdite tra le api bottinatrici e altri impollinatori. Riconosciamo e diamo il giusto valore a questi insetti straordinari, poiché responsabili di circa ⅔ del cibo che mangiamo.

Quando la dieta Occidentale deforesta l’Asia: il caso gamberetti

Quando la dieta Occidentale deforesta l’Asia: il caso gamberetti

Fino a un secolo fa, c’erano 4,2 milioni di ettari di foreste di mangrovie lungo le coste dell’Indonesia. Un numero che adesso ci pare assurdo perchè negli ultimi 25 anni, questi ettari si sono ridotti del 50% (anche fino al 70%, in modo particolare sull’isola di Java). Una perdita in gran parte dovuta all’acquacoltura intensiva di gamberetti e granchi. In alcune zone, dove l’allevamento di queste specie è più sviluppato, le reti da pesca ora sono vuote. Qui il terreno è ormai bruciato, inaridito e l’acqua è morta. Tutto a causa di come è costruito il nostro sistema alimentare. L’Indonesia da sola conteneva un quarto di tutte le mangrovie del mondo, tuttavia queste sono sempre più minacciate dall’aumento del consumo di gamberetti tropicali, che finiscono sulle tavole d’Europa e Stati Uniti. Ma come è potuto accadere?

Facciamo un passo indietro. Dobbiamo prima capire cosa sono le foreste di mangrovie e perché sono così importanti, dal punto di vista ambientale ed economico. Questi luoghi sono aree verdi costiere delle tropicali caratterizzate dalla presenza di mangrovie, una specie di alberi che beneficia di habitat umidi, caldi in acque salate. Questi alberi possono essere riconosciuti dal loro fitto groviglio di radici di sostegno, le quali rallentano il movimento delle maree, provocando la formazione del fondo fangoso. Il motivo per cui le mangrovie sono così importanti è perché mitigano il cambiamento climatico , proteggendo anche dall’erosione costiera, dagli tsunami e dalle tempeste oceaniche. Inoltre, in questi scambi, molte specie di fauna trovano il loro rifugio e habitat naturale, coesistendo in un reciproco scambio di “favori”. Le mangrovie sono una specie la cui esistenza è necessaria affinché l’intero ecosistema possa funzionare senza intoppi.

Come è stato affermato in precedenza, la maggior parte delle mangrovie si trova lungo la costa indonesiana. “Nel 2007 la Direzione generale per la riabilitazione del territorio e la selvicoltura sociale, Ministero delle foreste (Ditjen RLPS MoF) dell’Indonesia ha segnalato circa 7.758.411 ettari di mangrovie. È stato inoltre riferito che di quelle mangrovie il 30,7% era in buone condizioni, il 27,4% moderatamente distrutto e il 41,9% pesantemente distrutto ”. Di conseguenza, in Indonesia molte foreste di mangrovie sono state rase al suolo per varie cause negli ultimi decenni, principalmente mediante la conversione ad altri usi, in particolare per l’acquacoltura di gamberi tropicali e la produzione di olio di palma.

Secondo un rapporto della FAO, la maggior parte delle persone, soprattutto in Africa e in Asia, dipende dalle mangrovie per reddito e sussistenza. “Otto tipi di prodotti a base di mangrovie hanno avuto la priorità in quanto svolgono un ruolo particolarmente importante nella sicurezza alimentare e nei mezzi di sussistenza: pesce, legna da ardere, carbone, legname / pali, miele, foraggio, medicinali e coloranti. Questi servizi di approvvigionamento supportano la sicurezza alimentare e il sostentamento di queste popolazioni in diversi modi. Possono essere consumati direttamente (ad esempio pesce, miele e medicinali a base vegetale), utilizzati come input in altri processi di produzione (come barche e trappole per la pesca, foraggi per la produzione di bestiame o combustibile per cucinare) o venduti per generare contanti che possono essere utilizzati per acquistare generi alimentari e altri oggetti. Il turismo a base di mangrovie rappresenta anche un’importante fonte di reddito e occupazione per le comunità costiere”. Inoltre, la produzione zootecnica intensiva di gamberetti che è stata creata lungo le coste dell’Indonesia, dell’India e dello Sri Lanka, ha messo in pericolo molte comunità locali e le ha esposte ai rischi di tsunami. Ed è esattamente quello che è successo domenica 26 dicembre 2004; un terremoto al largo della costa nord-occidentale di Sumatra, in Indonesia, ha causato uno tsunami che ha distrutto gli allevamenti di gamberi nel sud-est dell’India e nel nord-ovest dell’Indonesia, uccidendo e distruggendo tutto ciò che incontrava. Lo tsunami è stato uno dei disastri naturali più mortali della nostra storia: ha ucciso circa 227.898 persone e ha causato un aggravamento delle condizioni di vita delle comunità locali nelle province costiere. La provincia di Aceh, in Indonesia, è stata la più colpita di tutte le aree. Lo tsunami ha distrutto le rive di terra degli stagni, riempendoli di detriti e di limo, spesso tossico. Secondo un’indagine della FAO, più della metà dei 44.000 ettari di laghetti di Aceh sono stati distrutti. Fortunatamente gli acquari in cemento sono intatti. Tuttavia, le conseguenze sono state tragiche e hanno lasciato un segno indelebile sul commercio e sulla produzione locale.

Oltre alle esternalità sociali ed economiche, dovremmo anche prendere in considerazione che la perdita delle foreste di mangrovie in Indonesia contribuisce al 42% delle emissioni globali di gas serra, che rappresenta una grave minaccia per il cambiamento climatico. Inoltre, è stato stimato che ogni anno l’Indonesia perde più o meno 52.000 ettari di foreste di mangrovie. Un disastro ambientale e sociale. La deforestazione e la distruzione degli ecosistemi costieri hanno aperto la strada a livelli più elevati di gas serra.

L’industria dei gamberetti, che vale 1,5 miliardi di dollari all’anno, è stata il motore di tale deforestazione di mangrovie, poiché queste vengono convertite in stagni di gamberetti dedicati all’acquacoltura. Sebbene l’acquacoltura sia una potenziale soluzione al problema della disponibilità degli stock ittici, è un fattore che contribuisce al declino della fauna marina, a causa dell’uso di sostanze chimiche per la prevenzione delle malattie e degli ormoni che causano una rapida crescita dei pesci. L’acqua salata, senza l’azione bloccante delle mangrovie, penetra nel terreno determinando un suolo morto, non più prezioso per l’agricoltura. Inoltre, l’acquacoltura intensiva o semi-intensiva comprende mangimi derivati ​​da pesci selvatici che sono stati pescati in mare. Tuttavia, per nutrire questi gamberetti hai bisogno di più del doppio del peso dei gamberetti che finisci per produrre. Per questo motivo, dovremmo considerare la deforestazione e l’acquacoltura come un problema sia nazionale che internazionale, dato che è una delle maggiori fonti di emissioni di gas a effetto serra e di esternalità del sistema alimentare in Indonesia.

Inoltre, uno studio sul cambiamento climatico della natura, “condotto da Daniel Murdiyarso del Center for International Forestry Research, ha mostrato che le mangrovie in Indonesia immagazzinano 3,14 miliardi di tonnellate di carbonio – o un terzo dello stock globale di carbonio costiero. Le mangrovie sono importanti a causa dei loro alti tassi di crescita di alberi e piante, insieme a suoli anaerobici e ricchi di acqua che rallentano la decomposizione, con grande stoccaggio di carbonio a lungo termine. Le mangrovie immagazzinano da tre a cinque volte più carbonio delle foreste pluviali. Ma negli ultimi tre decenni, l’Indonesia ha perso il 40% delle sue mangrovie ”. Questo rappresenta un problema enorme, anche considerando che nel febbraio marzo 2020, il ministro indonesiano della pesca Edhy Prabowo ha affermato che il paese mira ad aumentare la sua produzione di gamberetti da 410.000 tonnellate nel 2019 a 578.000 tonnellate entro il 2024, con un aumento del 250%.

In conclusione, la produzione di gamberetti indonesiani ha causato una grave interruzione delle risorse naturali ed economiche al fine di rifornire le tavole occidentali. Deforestazione, degrado del suolo, tsunami e ingiustizia sociale. Si è scoperto che anche la produzione di gamberetti è basata sul lavoro degli schiavi. Alcuni anni fa, un’indagine del Guardian ha rivelato che Charoen Pokphand Foods – il più grande allevamento di gamberetti al mondo – acquistava il suo mangime da fornitori che utilizzavano barche da pesca il cui equipaggio era composto da schiavi. Sono stati picchiati, venduti come animali e persino sottoposti a esecuzioni sommarie. Tra i clienti internazionali di Charoen Pokphand Foods c’erano Walmart, Carrefour, Tesco e Costco, le più grandi catene di supermercati del mondo. Per tutto questo motivo, dovremmo considerare questa produzione come insostenibile.

La parità di genere e il clima che cambia: ecofemminismo e moda sostenibile

La parità di genere e il clima che cambia: ecofemminismo e moda sostenibile

Come sono collegati femminismo intersezionale, lotta ai cambiamenti climatici e moda sostenibile?

Il filo rosso che unisce questi macro aspetti in realtà non è così sottile come crediamo. Anzi, è piuttosto evidente quanto ad intervenire sulle disuguaglianze di genere ci sia anche il cambiamento climatico.

Il 24 Aprile 2013 crolla il Rana Plaza, un edificio di 8 piani situato a Dacca, in Bangladesh. Sono 1129 le vittime del crollo strutturale, in gran parte donne giovanissime, vittime di un settore tessile piegato alle logiche sporche e fast della mentalità occidentale. 

E’ nell’industria del fast fashion che la maggior parte delle donne trova impiego. Un lavoro certo meccanico e monotono, ma soprattutto pericoloso, non redditizio e, comunque, indubbiamente necessario per provvedere al sostentamento della propria famiglia. Non si studia, si lavora fino alle 16 ore al giorno, nelle fabbriche di abiti destinate ai negozi dei marchi europei e nordamericani

Con vaste aree del Paese situazione a meno di 10 metri sul livello del mare, sono drammatiche le prospettive del Bangladesh, che a causa dei cambiamenti climatici in corso subirà con frequenza crescente alluvioni e inondazioni. Si tratta di uno dei paesi più esposti alle conseguenze terribili dell’emergenza che stiamo vivendo. Ma se i cambiamenti climatici avanzano, la distruzione dei terreni agricoli e l’impoverimento dei suoli sono all’ordine del giorno, e acqua e fonti di reddito scarseggiano, quali altre alternative ci sono se non quella di abbandonare tutto e trasferirsi nei grandi centri urbani come Dacca? Qui le donne si arrabattano come meglio possono. Aumentano i matrimoni prima dei 18 e, addirittura, 15 anni. 

Oltre al fenomeno delle spose bambine, aumentano esponenzialmente anche le giovani donne in cerca di reddito. Per poche rupie, sono queste le donne che ritroviamo nei grandi centri produttivi come il Rana Plaza, piegate a cucire abiti destinati ad un mercato globale, che li getterà via con l’arrivo dell’ultima collezione, la settimana successiva. Uno spreco di risorse naturali e umane quello del fast fashion. Vi invito a ragionare su questo, sulle connessioni tra i nostri acquisti smodati e i crolli degli edifici nelle aree del sud-est asiatico e/o a sud del mondo.

Chiedersi chi ha partecipato alla raccolta e filatura del cotone, quanto sia stato pagato e quale prezzo si è intascato il produttore è necessario tanto quanto il calcolo dell’impatto ambientale. Non possiamo più concepire come slegati macro aspetti di un sistema economico che esternalizza i propri costi su ambiente e persone. 

I titoli ‘verdi’ (ma non solo) di Aprile

I titoli ‘verdi’ (ma non solo) di Aprile

Ho controllato i vecchi post del blog. La sorte vuole che, esattamente un anno fa, con l’inizio del primo lockdown, pubblicassi la prima lista pubblica di libri da quarantena. Non mi aspettavo (lo ammetto: ero fin troppo speranzosa) un ritorno all’utilizzo della segnaletica semaforica covidiana anche in questo 2021. Sognavo che il rosso, l’arancione e il giallo delle regioni lasciassero più spazio al VERDE-SOSTENIBILE. Inutile dirvi che così non è stato. Lo sapete meglio di me.

Il rossissimo mese di Aprile ci ha lasciato giornate di solitaria tristezza, da dedicare alle tisane al finocchio e alla lettura intensiva. Ed ecco che nasce l’idea geniale e mai vista prima – cogliete l’ironia – di racchiudervi in pillole le recensioni dei testi più verdi che ho avuto modo di ritrovarmi tra le mani nell’ultimo mese. Lo dico subito, vostro Onore. Alcuni dei testi che andrò a citare sono stati un regalo – ben gradito – di alcune case editrici, la quali, inorridendo difronte al mio conto in banca, hanno deciso di omaggiarmeli.

  1. LA PLASTICA NEL PIATTO – Silvio Greco. Un grande classicone in tema alimentazione consapevole, edito da Giunti e Slow Food Editore. Come e quando siamo diventati plasticofagi? Il video della tartaruga marina con una cannuccia incastrata nel naso ha fatto il giro del mondo e del web. Ormai, grazie alle innumerevoli campagne di sensibilizzazione, il degrado degli oceani e lo stato pietoso dei nostri mari sono ben noti ai più. Meno chiara è la pervasività del problema plastiche. Non sono più sole le balenottere a manifestare, al momento delle necroscopie, polimeri termoplastici nel proprio stomaco. Come ci dice il professor Greco, autore di questo saggio, la plastica è ovunque; la respiriamo, la beviamo e la mangiamo ogni giorno. Non è più ‘solo’ una questione di ambientalismo. Si parla di salute, se la nostra dieta ormai prevede abbuffate di nanoplastiche e all you can eat di microplastiche, tanto da arrivare ad ingerirne 5 gr a settimana. Guarda caso, pari al peso di una carta di credito. Ironico, non trovate?

  2. VESTIRE BUONO, PULITO, GIUSTO – Dario Casalini. Questa non ve l’avevo raccontata. Ho incontrato Casalini un mesetto fa, qualche giorno prima dell’uscita del suo ultimo libro. Una collega voleva presentarmelo, facendomi così avere anche una sua copia firmata. Ma siccome il testo lo avrei avuto tra le mani il giorno successivo, assecondando la mia natura frugale e parsimoniosa, declinai subito l’invito. “Sai, non vorrei sprecare!”. La mia anima ecologista mi aveva spinta a rifiutare il dono proprio davanti a Casalini, nascosto dietro la mia collega, armato di penna per l’autografo e buona volontà. Figura di merda fatta, ma perlomeno posso dire che il libro poi lo lessi in meno di una settimana. Illuminante e scorrevole. Ottimo per i beginners dello Slow Fashion. (Scusami ancora, Dario!)

  3. UNA VITA DA RICOSTRUIRE Brigitte Riebe. Non è un saggio, ma il primo libro di una trilogia di romanzi quasi storici, ambientati tra le rovine berlinesi del secondo postguerra. La storia delle sorelle Ku’mann, nate in una famiglia tedesca numerosa, costrette a fare i conti con le difficoltà economiche e sociali dell’epoca. Lo inserisco nelle letture verdi di questo mese per il leitmotiv tessile che lega le protagoniste del romanzo alla moda odierna; la necessità di immaginare e costruirsi un futuro diverso, un domani possibile solo grazie ad un intervento radicale sul settore del tessile. Non c’è più tempo per autocommiserazione o dubbio; c’è solo spazio per l’azione. Come le sorelle Ku’mann hanno rivoluzionato la moda della Germania post-nazionalsocialista, (con tutte le complessità del caso) così tocca a noi, oggi. Prendiamole misure, tiriamoci su le maniche e cambiamo approccio al fashion.

  4. METTETE ORTI SUI VOSTRI BALCONI – Matteo Cereda. Chi ha detto che gli ortaggi non possano essere coltivati in vaso? Un trattato di ecologia filosofica, un manuale pratico sotto forma di inno alla rivoluzione verde, che questa volta ha inizio dalle città. O meglio, dai suoi balconi. Consociazioni, irrigazione, semine e trapianti. Tutto quello che devi sapere per imitare la natura sul tuo terrazzino urbano lo trovi qui dentro. Sbagliare diventa complesso se a spiegarti la teorica (e anche la pratica) c’è Cereda. Considerando che la primavera è iniziata, ma il lockdown non è ancora finito, vi serviranno attività con cui intrattenere i bambini della famiglia e i bambini che albergano ancora le vostre anime.

  5. IL CIBO CHE CI SALVERA’ – Eliana Liotta. Non c’è una sola ricetta per salvare il clima. Le diete per il Pianeta sono diverse; adatte e adattabili ad ogni gusto e stile di vita. Lo spiega bene Liotta, comunicatrice scientifica e giornalista italiana, in questo recentissimo testo edito da La Nave di Teseo. Sebbene alcuni dati potrebbero essere meglio approfonditi, apprezzo la volontà di informazione sulle diverse svolte ecologiche e applicazioni a tavola. Foer fece da apripista nell’editoria internazionale e Liotta lo segue, mettendo in luce le conseguenze climatiche di una dieta troppo animali-dipendente, serve per forza ‘veganizzare’ sul posto il lettore.

  6. SCEGLIERE IL FUTURO – Christiana Figueres e Tom Rivett-Carnac. Come sarà il nostro futuro, se riusciremo a stare entro la soglia dei 1,5 gradi di riscaldamento? Che aspettativa di vita avremo, se invece questo non dovesse accadere? Il mondo che dobbiamo cercare di creare, con disperato ottimismo, ci obbliga a ripensare il nostro modo di vivere e concepire le sociali interconnessioni terrestri. Punto per punto, Figueres e Rivett-Carnac (due tra le più autorevoli voci diplomatiche internazionali) ci aiutano a recuperare le forze e lo spirito d’iniziativa per affrontare le incertezze prossime, figlie della crisi climatica in atto. La ricetta per il successo? Outrage e optimism, ovvero caustica indignazione e impetuosa fiducia.
Onlus, donazioni e cura ambientale: a chi lasci il tuo 5×1000?

Onlus, donazioni e cura ambientale: a chi lasci il tuo 5×1000?

La puoi sentire nell’aria, ma non è primavera! È tempo di dichiarazione dei redditi per i buoni cittadini-contribuenti. Una quota dell’IRPEF, come ogni anno, la lasceremo a enti e associazioni che svolgono compiti apprezzabili, socialmente e ‘ambientalmente’ utili. La scelta è ardua, sicché le attività che vorremmo supportare sono tante, ma il 5×1000 (almeno il mio) è poco. Allora, si fa quel che si può; si dona bene quel poco che c’è, a chi cerca di fare la differenza.

Quindi, a chi donare? Qui sotto una lista di organizzazioni senza scopo di lucro, che si battono per la conservazione del Pianeta e delle sue specie animali (compresa la nostra – maledetta!).

1. SEA SHEPHERD: la fortuna degli eco-pirati è stata finire nel documentario del momento. Con “Seaspiracy” (produzione Netflix sull’impatto ambientale della pesca), la Sea Shepard si è conquistata frotte di nuovi ammiratori. D’altronde, il ‘mazzo tanto’ se lo fanno, mettendo in pratica azioni dirette contro la pesca illegale, lo sfruttamento degli oceani e la caccia alle specie marine protette. (Per maggior informazioni: clicca qui)

2. FONDO FORESTALE ITALIANO: onlus che nasce a Roma, avendo a cuore la biodiversità forestale del nostro Bel Paese. Non ha fini di lucro ed opera acquistando e conservando boschi. In questo modo, li conserva e li lascia nel loro stato naturale, senza effettuare tagli a scopo economico. Boschi e terreni del Fondo Forestale Italiano diventano risorse ambientali conservate a vantaggio delle locali popolazioni; sono gestite perciò da gruppi locali di associati che, mantenendo fede allo Statuto dell’associazione, agiscono come interfaccia con le comunità locali. (Per maggiori informazioni: clicca qui)

3. ELIANTE: cooperativa sociale italiana che opera nel campo della sostenibilità ambientale, formando individui ed educando alla protezione ambientale, spingendo sulla convivenza con i grandi carnivori. Un progetto particolarmente interessante è ‘Pasturs’; hanno formato diversi volontari per aiutare i pastori delle Alpi Orobie della Bergamasca a convivere con lupo e orso, senza conflitto. Al centro c’è l’idea di un mondo ambientalista, fondato sulla conoscenza e il rispetto per la vita di tutti. (Per maggiori informazioni: clicca qui)

4. FONDAZIONE SLOW FOOD PER LA BIODIVERSITÀ ONLUS: movimento internazionale in difesa della cultura cultura gastronomica e no profit, Slow Food è impegnata a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi. Il cibo – diritto di ogni essere vivente – deve essere buono, pulito e giusto. Nessuno deve morire per ciò che mettiamo nel nostro piatto. L’associazione sostiene i piccoli produttori – specie quelli a sud del mondo – acquistando attrezzature, offrendo formazione, difendendo la biodiversità agricola, promuovendone i prodotti in manifestazioni internazionali. (Per maggiori informazioni: clicca qui)

5. A SUD: come costruire ponti di solidarietà attiva tra Nord e Sud del mondo? La cooperazione internazionale è la chiave di volta, insegnando come quello che accade nel piccolo, in zone anche remote del nostro Paese, è specchio di quello che accade dall’altra parte del Pianeta, e viceversa. Che la devastazione dell’Amazzonia ecuadoriana o del Delta del Niger da parte delle grandi multinazionali di casa nostra è la stessa che distrugge le nostre comunità – in Basilicata come in Veneto o in Sicilia – che crea deserto sociale, disoccupazione, malattie. (Per maggiori info: clicca qui)

6. UNO CHEF PER ELENA E PIETRO: l’unica scuola di cucina gratuita la mondo, situata in Calabria; è nata con lo scopo di garantire un futuro sostenibile e brillante a giovani calabresi, partendo da una valorizzazione delle materie prime e dal rispetto per il proprio territorio. Il direttore dell’associazione – ovviamente a titolo gratuito – è Silvio Greco, biologo marino e dirigente di ricerca della stazione zoologica A. Dohrn. (Per maggiori info: clicca qui)

7. ESSERE ANIMALI: associazione italiana che realizza indagini in allevamenti intensivi e macelli, per raggiungere milioni di persone con la diffusione delle immagini su media e televisioni.  Documentano la crudeltà e denunciano i maltrattamenti, facendo leva e pressione sulle Istituzioni per chiedere cambiamenti legislativi e sulle aziende per spingerle a migliorare le loro politiche. L’obiettivo è la registrazione di un cambio nel sistema alimentare che metta fine allo sfruttamento degli animali e sia più sostenibile per il pianeta. (Per saperne di più: clicca qui)

8. FONDAZIONE CETACEA ONLUS: organizzazione no profit fondata nel 1988 con lo scopo di tutelare l’ecosistema marino, soprattutto adriatico, attraverso attività di divulgazione, educazione e conservazione. Ormai da diverso tempo, grazie all’aiuto di volontari veterinari e biologi, si occupano di soccorrere animali in difficoltà, gestendo il centro di recupero di tartarughe e altri animali selvatici marini. Nel Centro sono state curate e restituite al mare oltre 500 tartarughe marine, con un incremento notevole negli ultimi anni. La Fondazione interviene anche su tutte le tartarughe spiaggiate già morte per raccogliere dati in merito alla salute del nostro mare: le tartarughe infatti sono un indicatore biologico delle condizioni di salute del nostro mare. (Per avere ulteriori dettagli: clicca qui)