da Giorgia | 19 Apr 2021 | Informarsi
Come sono collegati femminismo intersezionale, lotta ai cambiamenti climatici e moda sostenibile?
Il filo rosso che unisce questi macro aspetti in realtà non è così sottile come crediamo. Anzi, è piuttosto evidente quanto ad intervenire sulle disuguaglianze di genere ci sia anche il cambiamento climatico.
Il 24 Aprile 2013 crolla il Rana Plaza, un edificio di 8 piani situato a Dacca, in Bangladesh. Sono 1129 le vittime del crollo strutturale, in gran parte donne giovanissime, vittime di un settore tessile piegato alle logiche sporche e fast della mentalità occidentale.
E’ nell’industria del fast fashion che la maggior parte delle donne trova impiego. Un lavoro certo meccanico e monotono, ma soprattutto pericoloso, non redditizio e, comunque, indubbiamente necessario per provvedere al sostentamento della propria famiglia. Non si studia, si lavora fino alle 16 ore al giorno, nelle fabbriche di abiti destinate ai negozi dei marchi europei e nordamericani.
Con vaste aree del Paese situazione a meno di 10 metri sul livello del mare, sono drammatiche le prospettive del Bangladesh, che a causa dei cambiamenti climatici in corso subirà con frequenza crescente alluvioni e inondazioni. Si tratta di uno dei paesi più esposti alle conseguenze terribili dell’emergenza che stiamo vivendo. Ma se i cambiamenti climatici avanzano, la distruzione dei terreni agricoli e l’impoverimento dei suoli sono all’ordine del giorno, e acqua e fonti di reddito scarseggiano, quali altre alternative ci sono se non quella di abbandonare tutto e trasferirsi nei grandi centri urbani come Dacca? Qui le donne si arrabattano come meglio possono. Aumentano i matrimoni prima dei 18 e, addirittura, 15 anni.
Oltre al fenomeno delle spose bambine, aumentano esponenzialmente anche le giovani donne in cerca di reddito. Per poche rupie, sono queste le donne che ritroviamo nei grandi centri produttivi come il Rana Plaza, piegate a cucire abiti destinati ad un mercato globale, che li getterà via con l’arrivo dell’ultima collezione, la settimana successiva. Uno spreco di risorse naturali e umane quello del fast fashion. Vi invito a ragionare su questo, sulle connessioni tra i nostri acquisti smodati e i crolli degli edifici nelle aree del sud-est asiatico e/o a sud del mondo.
Chiedersi chi ha partecipato alla raccolta e filatura del cotone, quanto sia stato pagato e quale prezzo si è intascato il produttore è necessario tanto quanto il calcolo dell’impatto ambientale. Non possiamo più concepire come slegati macro aspetti di un sistema economico che esternalizza i propri costi su ambiente e persone.
da Giorgia | 31 Gen 2021 | Zero Waste
Cosa significa fare moda etica e sostenibile? Quali sono i rischi d’impresa? Come nasce un’idea? Sono tutte domande che ho rivolto a chi si impegna ormai da anni per una produzione tessile italiana più pulita.
A Daniela, l’esperienza in India cambia la vita. L’incontro con la natura la spinge a compiere una scelta coraggiosa e rivoluzionaria: rispettare l’ambiente, le persone e i materiali, trasformando in meglio la moda italiana. Ed è così che nasce CasaGIN; partendo per un viaggio lontano, da un amore per il Pianeta, dalla ricerca di sé. Così muove i primi passi il brand fatto per chi “le cose le vuole fatte bene”. Partendo dall’intimo – ovvero la parte che resta più a lungo a contatto con il nostro corpo – ci si impegna a essere più sinceri e autentici. Genuini, per natura. Daniela e i suoi amici fondano un piccolo sogno nel 2017, autofinanziandosi. Sono tra i primissimi italiani a scommettere in un futuro in armonia con le risorse del Pianeta, credendo fino in fondo nella possibilità di una moda diversa, inclusiva e sostenibile.
MATERIALI – faggio, eucalipto, cotone organico e plastica riciclata
Come ormai sappiamo, l’autentica sostenibilità inizia dalla produzione e dalla scelta dei materiali. Tuttavia, no, non basta usare cotone “organico” per spacciarsi come eco-friendly. Serve uno sforzo maggiore per essere sostenibili. Nel caso di CasaGIN, la selezione, la filatura del cotone e la produzione tessile avvengono in Italia – più precisamente tra Veneto e Friuli. I materiali scelti non solo sono certificati e naturali, ma provengono da aziende e foreste a ridotto impatto ambientale.
È il caso della polpa del legno di faggio, un prodotto formidabile da cui si estrae il tessuto di origine naturale TENCEL™ Modal. L’azienda austriaca che ha sviluppato questa innovazione unica certifica l’intero ciclo produttivo del ‘fiocco di Modal’, che viene poi preso e trasformato qui in Italia. Dispone della certificazione internazionale FSC, indipendente e di parte terza, specifica per il settore forestale e i prodotti derivati proprio dalle foreste. La lavorazione avviene a circuito chiuso, con un recupero del 99% delle sostanze di sintesi impiegate; queste non vengono quindi disperse nell’ambiente, ma riqualificate e riutilizzate nel ciclo produttivo. Altra straordinarie proprietà: la resistenza e la morbidezza. Si tratta di un tessuto biodegradabile, altamente igroscopico e resistente all’usura. Insomma, è fatto bene ed è fatto per durare.
Dalla trasformazione del legno di eucalipto, CasaGIN ricava il suo TENCEL™ Lyocell, da impiegare nei tessuti d’abbigliamento. La produzione di questa fibra naturale è ritenuta estremamente sostenibile, in quanto ecologica ed economica. Cresce in fretta, senza impiego invasivo di pesticidi o dispendio d’acqua, con una produttività 10 volte più alta rispetto a quella del cotone. Il risultato è un tessuto morbido sulla pelle; come seta, ma resistente a lavaggi e usura. Per la sua composizione, la fibra di eucalipto provvede poi anche a una compensazione termica tale da rendere il tessuto caldo d’inverno e fresco d’estate.
Arriviamo al tanto discusso cotone organico. Una grande distinzione tra CasaGIN e altri marchi velatamente sostenibili è la provenienza e filatura del cotone. Questi passaggi avvengono in Italia, con un controllo garantito sulla filiera. Importante nota da tenere sempre a mente: è certificato GOTS (GLOBAL ORGANIC TEXTILE STANDARD), ovvero la più importante certificazione del cotone, in quanto sottolinea una doppia trasparenza; l’origine biologica e a minor impatto ambientale della materia prima, con grande attenzione agli aspetti etici nell’impiego della manodopera.
Per provare la natura sulla vostra pelle- in casa, fuori casa e quando fate movimento – avete il 10% di sconto, con il codice ggalaskacg10, su qualsiasi capo di CasaGIN (qui il link per esplorare il loro mondo armonioso e capire di più sulla moda lenta).
da Giorgia | 8 Ott 2020 | Zero Waste
La scarpe sono un tipico prodotto dell’industria della moda fast e consumista. La verità è che siamo stati abituati male: compriamo un paio di scarpe da ginnastica ad ogni inizio stagione, facendoci guidare da trend effimeri e passeggeri, senza troppo pensare alla qualità o, addirittura, al nostro conto in banca.
Consideriamo innanzitutto che, secondo i dati Unicef, il lavoro minorile è ancora largamente impiegato, soprattutto nel settore del fashion. Molti bambini e bambine vengono prelevati da aree rurali, di paesi come il Bangladesh e l’India, per lavorare senza protezioni o tutele nelle fabbriche, non a norma, delle città. Questo avviene perchè gran parte della catena di approvvigionamento e produzione richiede manodopera poco qualificata e a costi ridicoli. Nella raccolta del cotone, ad esempio, il lavoro minorile è uno scoglio importante: i datori di lavoro preferiscono assumere i bambini per le loro dita piccole e snelle, poichè non danneggerebbero il raccolto. Vengono così impiegati nella raccolta e nell’impollinazione manuale delle piante di cotone, ma anche nella fase di taglio, cucito e assemblaggio.
Altro elemento da tenere a mente è il costo ambientale della produzione. Gli scarti produttivi, gli agenti chimici inquinanti, il packaging insostenibile e la concia della pelle con metalli pesanti sono le prime conseguenze di una produzione di scarpe nociva per persone ed ambiente. Qui voglio invitarvi a ragionare insieme a me: una realtà possibile e alternativa esiste già. Rivalutiamo il nostro modo di consumare. Non siamo solo spettatori: possiamo diventare co-produttori, finanziando e motivando una cambiamento; per una moda che sia inclusiva, rispettosa e sicura per tutti – Pianeta compreso.
1- WOMSH
Iniziamo col botto. Dal 2014, Womsh produce scarpe ecosostenibili nel completo rispetto della Terra. La trasparenza è ciò che li rende unici: progettano, fabbricano e confezionano scarpe e stivali in Italia, scegliendo attentamente le materie prime e i fornitori. Manifattura artigianale italiana e produzione etica sono alla base del modello produttivo di Womsh.
L’azienda si alimenta per il 90% di energia pulita, ottenuta da fonti rinnovabili. La pelle utilizzata è ottenuta dagli scarti produttivi di sola origine europea. In questo modo, si limitano gli sprechi e si rimettono in circolo le risorse. Inoltre, nel realizzare la pelle concia vengono adoperate materie prime atossiche; in questo modo si può contiene la produzione di rifiuti pericolosi e di emissioni nocive per la salute e per l’ambiente.
It’s a win-win!
Womsh è stata anche tra le prime aziende di scarpe eco-friendly a realizzare una linea totalmente vegana, a base di Apple Skin. Si tratta di un materiale nuovo, tutto italiano, realizzato a partire da materie prime biodegradabili, provenienti da fonti rinnovabili. Una similpelle ottenuta dalle bucce e scarti produttivi della produzione di mele. Rivoluzionarie!
Qui il link per lo shop di Womsh.
2- ID EIGHT
Sneakers genderless, realizzate con foglie di ananas, raspi e semi d’uva, bucce e torsoli di mele, cotone biologico e plastica riciclata. Sono scarpe disancorate dei vecchi e malsani concetti della fast fashion; l’obiettivo è quello di creare un progetto circolare ed inclusivo, dove al centro ci sono l’ambiente e le persone che lo vivono.
La struttura di ID EIGHT è quella della slow fashion. Due modelli di scarpe – Hani e Duri – ispirati ai colori e all’estetica degli anni ‘90, entrambi rivolti a qualsiasi genere. Basta con il binomio uomo-donna. Non c’è stagionalità o ritmi forsennati: si segue una produzione lenta e virtuosa, senza sfruttamento dei lavoratori o del suolo.
Anche qui, le scarpe sono cruelty free! La pelle non è di origine animale, ma ottenuta invece dalla bio-polimerizzazione delle bucce e scarti produttivi di mele, prevenienti da aziende italiane. Mentre il Pinatex è realizzato con foglie di ananas, coltivate eticamente nelle Filippine.
Qui il link per lo shop di ID EIGHT.
3- WILDLING SHOES
È come camminare scalzi! I due fondatori hanno scelto di produrre scarpe innanzitutto per i loro figli, cresciuti a piedi scalzi in Israele. La maggior parte della scarpe che usiamo, soprattutto quelle per bambini, finiscono per modificare e alterare in negativo la crescita del piede, a causa di una struttura della suola pensata male. È proprio qui che interviene Wilding Shoes! Ispirandosi ai ninja boots giapponesi e rivoluzionando la suola, l’azienda tedesca riesce a offrire ad adulti e piccini una flessibilità assoluta nei punti di maggior pressione per il piede.
I materiali impiegati nella realizzazione della scarpe sono tutti naturali e sostenibili; cotone biologico, canapa, lana cotta e sughero, provenienti da produzioni e piccole imprese europee e/o tedesche. La trasparenza e la garanzia sono fondamentali nella visione dell’azienda. Non c’è sovrapproduzione! Insomma, queste scarpe ci rimettono in contatto con la natura, con il suolo che calpestiamo ogni giorno, per esplorare in modo sostenibile il Pianeta che abitiamo, senza però tradire i nostri piedi!
Qui il link per lo shop di Wildling.
Nota bene: tutte le scarpe da me menzionate in questo articolo sono state valutate, testate e approvate dei miei stessi magici piedini. Hanno perciò superato a pieni voti le mie ferree analisi: sono Gigi approved!
da Giorgia | 26 Giu 2020 | Zero Waste
Per una volta, scelgo di empatizzare con voi amanti dell’estate – che, guarda caso, siete anche quelli che abitano al mare e hanno zero peli sul corpo marmoreo (scusate, niente risentimento). Per una volta, chiudo entrambi gli occhi e pubblico un post dedicato all’estate e ai suoi costumi da bagno – o swimwear, se vogliamo fare gli anglosassoni – interamente sostenibili.
I problemi di inquinamento dell’industria tessile ormai non sono più (si spera) una novità alle orecchie dell’opinione pubblica. Lo sappiamo, i processi di produzione di questo settore comportano un eccessivo consumo di acqua e impiego di sostanze chimiche, che spesso vengono deliberatamente disperse nell’ambiente. Parliamo di costi sociali ed ambientali talmente alti da aver reso la moda il secondo settore più inquinante al mondo. Un bel problemone per noi Occidente consumista fino al midollo!
E’ tempo di rivoluzione, per la Terra e per i lavoratori. Abbiamo bisogno di una rivalutazione dei processi produttivi; di una maggiore attenzione alle condizioni di lavoro del personale e alle materie prime impiegate. Non si può pensare di poter vendere in Italia, delocalizzando la produzione in Bangladesh o Etiopia per abbassarne i costi. Non si può più acquistare un costume a 15€, senza sapere chi lo ha cucito e a quale prezzo.
Eccovi quindi una lista di brand di swimwear – dai, facciamo gli anglosassoni per benino – davvero attenti all’ambiente e ai lavoratori. Ho scelto marchi prevalentemente italiani, con fabbriche e stabilimenti in Italia o Europa, dove i controlli sulla qualità del lavoro sono notoriamente più frequenti. No brand di capi disegnati a Parigi, per poi essere prodotti in Cina, per intenderci.
CasaGIN – Made in Italy: abiti, intimo e costumi da mare realizzati consapevolmente, in armonia con il ritmo lento della natura. I tessuti impiegati nella produzione sono in fibre vegetali biodegradabili, prodotti a partire da materie prime rinnovabili. Eucalipto, legno di faggio, plastiche rigenerate e cotone organico si mescolano per creare la loro linea estiva.
Nello specifico, i costumi sono in ECONYL (al 78%); si tratta di un materiale a base di un filo di nylon rigenerato, recuperato dagli scarti di reti da pesca o boe. (qui il loro sito)
Balajanas – Made in Italy: altro brand totalmente italiano – sardo, per la precisione – che utilizza il filo di nylon rigenerato ECONYL. Questo tessuto ecologico è in grado di assicurare un alto grado di vestibilità, resistendo anche ad abrasioni, salsedine e creme solari. (qui il sito)
SOSEATY: Il progetto è di una start up veneta, che ha fatto dell’economia circolare il suo punto di forza. I pantaloncini da uomo sono realizzati in poliestere riciclato (SEAQUAL), recuperato attraverso la pulizia degli oceani e la trasformazione della plastica delle bottiglie. Nella linea donna, invece, ritroviamo il buon vecchio ECONYL menzionato prima, questa volta con nylon rigenerato al 65%.
Tutti i materiali impiegati provengono da siti non più lontani di 300 km dal centro di produzione, in modo tale da minimizzare – quanto possibile – le emissioni di CO2 in termini di trasporto. (qui il loro sito)
Repainted – Italian Beachwear: una moda locale, artigianale con capi realizzati a partire da filato ECONYL, resistente a raggi UV, cloro e solari. Dal design particolare e ricercato, rappresenta un piccolo investimento destinato a durare molto più che una collezione o una sola estate. Chiaramente tutto italiano, dai materiali agli stabilimenti produttivi. (qui trovate la collezione 2020)
AllSisters: brand che produce responsabilmente in Spagna, utilizzando materiali eco, certificati italiani. Realizza bikini e pezzi unici dal taglio timeless e chic – modo ricercato per dire “ne prenderei due pure io, grazie!”. Secondo il sito di rating tessile Good On You, non è chiaro se garantisca o meno un minimo salariale, ma trattandosi di una produzione spagnola possiamo (quasi) starne certi. (Qui per maggiori info)