Come sono collegati femminismo intersezionale, lotta ai cambiamenti climatici e moda sostenibile?
Il filo rosso che unisce questi macro aspetti in realtà non è così sottile come crediamo. Anzi, è piuttosto evidente quanto ad intervenire sulle disuguaglianze di genere ci sia anche il cambiamento climatico.
Il 24 Aprile 2013 crolla il Rana Plaza, un edificio di 8 piani situato a Dacca, in Bangladesh. Sono 1129 le vittime del crollo strutturale, in gran parte donne giovanissime, vittime di un settore tessile piegato alle logiche sporche e fast della mentalità occidentale.
E’ nell’industria del fast fashion che la maggior parte delle donne trova impiego. Un lavoro certo meccanico e monotono, ma soprattutto pericoloso, non redditizio e, comunque, indubbiamente necessario per provvedere al sostentamento della propria famiglia. Non si studia, si lavora fino alle 16 ore al giorno, nelle fabbriche di abiti destinate ai negozi dei marchi europei e nordamericani.
Con vaste aree del Paese situazione a meno di 10 metri sul livello del mare, sono drammatiche le prospettive del Bangladesh, che a causa dei cambiamenti climatici in corso subirà con frequenza crescente alluvioni e inondazioni. Si tratta di uno dei paesi più esposti alle conseguenze terribili dell’emergenza che stiamo vivendo. Ma se i cambiamenti climatici avanzano, la distruzione dei terreni agricoli e l’impoverimento dei suoli sono all’ordine del giorno, e acqua e fonti di reddito scarseggiano, quali altre alternative ci sono se non quella di abbandonare tutto e trasferirsi nei grandi centri urbani come Dacca? Qui le donne si arrabattano come meglio possono. Aumentano i matrimoni prima dei 18 e, addirittura, 15 anni.
Oltre al fenomeno delle spose bambine, aumentano esponenzialmente anche le giovani donne in cerca di reddito. Per poche rupie, sono queste le donne che ritroviamo nei grandi centri produttivi come il Rana Plaza, piegate a cucire abiti destinati ad un mercato globale, che li getterà via con l’arrivo dell’ultima collezione, la settimana successiva. Uno spreco di risorse naturali e umane quello del fast fashion. Vi invito a ragionare su questo, sulle connessioni tra i nostri acquisti smodati e i crolli degli edifici nelle aree del sud-est asiatico e/o a sud del mondo.
Chiedersi chi ha partecipato alla raccolta e filatura del cotone, quanto sia stato pagato e quale prezzo si è intascato il produttore è necessario tanto quanto il calcolo dell’impatto ambientale. Non possiamo più concepire come slegati macro aspetti di un sistema economico che esternalizza i propri costi su ambiente e persone.