Dagli anni ’50 ad oggi la produzione di soia nel mondo è cresciuta a una velocità irrefrenabile, passando da 16 milioni di tonnellate all’anno a 352 milioni (dati FAO, 2017).
Una crescita esponenziale quella del mercato della soia, che non è però causata dall’aumento della domanda di prodotti a base di soia, per l’alimentazione umana. Iniziamo quindi a sfatare un primo mito: non sono esattamente i “vegani malefici”, tanto affamati di questo legume, a distruggere il mondo.
Quindi dove va a finire tutta questa soia?
Guardando come sempre ai dati – oh grandissimi numeri, cosa faremmo senza di voi -, si scopre che la soia prodotta in tutto il mondo è destinata per il 70% ai mangimi necessari per nutrire suini (soprattutto negli allevamenti intensivi, anche in quelli italiani).
Ecco come la soia viene consumata quotidianamente da ognuno di noi, per vie indirette, e finisce nei nostri piatti sotto forma di carne, uova e prodotti caseari.
La soia è infatti un legume altamente proteico, la cui farina è alla base della dieta di ormai quasi i tutti gli animali impiegati in zootecnica ed allevamento. Semplicemente, la amiamo tanto perché fa crescere la muscolatura animale più in fretta e permette di far arrivare sulle nostre tavole la carne nel più breve tempo possibile.
A partire dagli anni ’50, insieme alla produzione di soia, è cresciuto nel mondo anche il consumo di carne, in modo particolare in Cina. Qui vengono allevati e macellati ogni anno 700 milioni di maiali (in Italia “solo” 9 milioni). Si consuma e si commercializza così tanta carne, che per essere prodotta e consumata questa ha bisogno di essere allevata con tanta, tantissima soia.
Ed ecco che sorge il primo problema: il Paese non ha una superficie coltivabile sufficiente per produrre la quantità necessaria di soia per gli allevamenti e perciò risolve abilmente la questione importando tonnellate di soia principalmente dal Sud America.
Proprio qui sorge quella che chiamiamo la “Repubblica Unita della Soia”. In Sud America, tra Bolivia, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, sono state realizzate negli ultimi 30 anni enormi distese dedicate alla sola monocoltura di soia. Le foreste del Sud America, nonostante le migliaia di km a separarli, si intrecciano e si legano indissolubilmente con la produzione intensiva di carne suina in Cina, comportando conseguenze devastanti.
La produzione è poi in mano a grandi aziende che, di fatto, lavorano in quasi totale assenza di manodopera, grazie all’impiego di aerei per la distribuzione dei diserbanti e di mietitrebbiatrici per la raccolta. Nella
“Repubblica Unita della Soia” difficilmente si incontra un’anima viva.
Si osserva quindi un enorme processo di industrializzazione forzata delle campagne ed una conseguente distruzione di ecosistemi: gigantesche distese vuote di campi e spazi ora disabitati, adibiti esclusivamente
alla coltivazione di un legume che finirà nelle pance e negli stomachi di suini dall’altra parte del globo.
Il prezzo da pagare per tutto ciò è alto. Oggi la vegetazione, la foresta non c’è più, c’è solo più soia. I campi hanno soppiantato il “Mato Grosso” (la foresta spessa brasiliana), spazzando via alberi, biodiversità e sistemi sociali ed ambientali. Il mercato chiede sempre più carne, sempre più soia, sempre più foresta. Le dosi di insettici, fertilizzanti e pesticidi impiegati in queste monoculture si fanno sempre più massicce. Quanto ancora la Terra riuscirà ad assorbirle non è dato sapersi. Quanto ancora questo sistema reggerà tantomeno.
Nel documentario Soyalism, di Stefano Liberti e Enrico Parenti, la lunghissima filiera produttiva di soia viene smantellata ed eviscerata. Un sistema iniquo, estremamente industrializzato e fortemente insostenibile, che genera conseguenze devastanti per ambiente, individui ed animali.