Lo mangiamo in tanti e lo cuciniamo in molti. Dovrebbe essere un cibo dall’esecuzione semplice, una ricetta non troppo complicata, eppure l’hummus nasconde una certa difficoltà. Facciamo ancora fatica a delineare la sua provenienza o a comprendere la sua storia. In poche parole: cos’è l’hummus? Da dove arriva e perchè lo troviamo ormai in tutti i menù dei ristoranti israeliani?
In verità, tutto ebbe inizio in Medio Oriente, anche se il merito della diffusione lo si deve alla commercializzazione israeliana. L’hummus è una salsa spalmabile, a base di ceci e tahina, tipicamente araba, nata in Medio Oriente, poi adottata e nazionalizzata anche dagli Ebrei di Israele, tanto da essere sempre più associata alla cultura enograstronomica di questa zona.
Com’è quindi possibile che una salsa di origine araba sia diventata nel tempo simbolo della cucina di un altro paese? Di un luogo così culturalmente diverso dal suo intero vicinato, scatenando una “guerra dell’hummus”?
Lo scontro è ancora in atto. In Medio Oriente si sta tuttora discutendo la legittimità del marchio d’origine di questo piatto. Chiaramente, questo conflitto culinario si inserisce all’interno di uno scontro storico-culturale ben più grande: quello tra il resto del Medio Oriente e lo stato d’Israele.
Nelle primissime lezioni di antropologia dell’alimentazione, si scopre che il cibo è indice e indicatore di identità: crea i confini tra “noi” e “loro”. È abbastanza intuitivo: il cibo definisce i gruppi sociali e costruisce il discorso sull’autenticità, su cui si fonda il gastronazionalismo – ovvero il patriottismo alimentare. Dobbiamo poi pensare che, oltretutto, la globalizzazione dei mercati e la crescita del consumo su scala mondiale di hummus hanno determinato un importante aumento del valore economico della cucina nazionale. Si aprono le porte a una rivalità culinaria che si fonda sul concetto di nazione, di cibo autentico e tradizionale. Una guerra per ottenere ampie fette di mercato, di conquista economica.
E i risultati di questo scontro si notano. Nel 2008, un gruppo di industriali libanesi lancia una campagna simbolo – Hands off our dishes – contro l’appropriazione gastronomica, volta proprio a fermare la diffusione del trademarketing israeliano di hummus. Il movente era chiaramente economico, contando anche che le più grandi aziende a monopolio del mercato americano di hummus erano entrambe israeliane.
Guardando poi alla storia del piatto, identifichiamo tre importanti momenti di incontro tra ebrei e salsa di ceci:
1. Negli anni immediatamente dopo la creazione dello Stato di Israele, l’hummus era il cibo dell’Altro: apparteneva a ciò che gli Ebrei non erano; era alimento degli Arabi. Tuttavia, dopo il 1948, con la successiva instaurazione del regime di austerità, il popolo ebraico in Medio Oriente cominciò a cercarsi cibo locale, egualmente calorico e valido dal punto di vista nutrizionale. Dopo la seconda guerra mondiale, la carne scarseggiava; bisognava trovarsi un’alternativa funzionale e disponibile nei mercati della zona. La soluzione era nella salsa di ceci araba. Deliziosa e nutriente.
2. I primi tentativi di creare una nuova cucina d’Israele avvengono nel corso degli anni 50 del Novecento. È in questo periodo che l’hummus diventa “nazionalizzato”, cominciando ad esprimere tratti e valori tipicamente israeliani, sopprimendo l’origine araba. Oltretutto, consumare un cibo strettamente locale facilitava una certa rappresentazione del sé, uno naturalmente legato alla nuova terra occupata. L’hummus diventa cibo legittimo di Israele perché “Israele è stato legittimo, naturalmente e tradizionalmente legato al territorio mediorientale”. Anche l’industria alimentare svolse un ruolo fondamentale nella gastronazionalizzazione israeliana, nella naturalizzazione del cibo orientale. L’azienda Telma Food commercializzò per la prima volta la ricetta dell’hummus nel 1958, segnando il suo ingresso ufficiale nell’industria del cibo. Fu Telma a definire la pietanza come “piatto nazionale d’Israele”, nella sua vendita e pubblicità, trasformando definitamente Gerusalemme nella capitale dell’hummus.
3. Nonostante ciò, sin dalla fine degli anni 80 del Novecento, l’identità araba è lentamente riemersa. Questo cambiamento di rotta lo si deve all’interazione politico-sociale tra Stati mediorientali di quel periodo, che spinse a rivalutare il concetto di autenticità culinaria. Un trend che si realizzò soprattutto nel corso della prima guerra con il Libano. Nei quartieri arabi di Gerusalemme, gli israeliani andavano a caccia dell’autentico hummus. Quello “tradizionale” e meno costoso, concepito come espressione dell’alterità.
In questo frangente, il consumo di cibo appariva come strumento per addomesticare l’ignoto, la paura dell’Altro. Il cibo viene difatti ingoiato, interiorizzato, trasformato per diventare parte del sé. Una mercificazione della differenza che si manifesta nella “cucina etnica”. Qui “mangiare l’Altro” assume una doppia valenza. Finisce per significare innanzitutto un’affermazione di potere, di privilegio, una distinzione dell’io; ma anche una superamento del pregiudizio occidentale/bianco nei confronti dell’Estraneo e del diverso.
Il sociologo Guion ritenne che l’atteggiamento degli Israeliani nei confronti della cucina araba, soprattutto quella palestinese e libanese, riflettesse, più in generale, la marginalizzazione degli Arabi d’Israele. Il tutto risultò in una continua appropriazione di alcuni tratti della cultura culinaria dell’Altro, senza però la volontà di riconoscere e ricordare la reale provenienza. Un colonialismo alimentare che ingloba, demolisce e ricostruisce alcuni aspetti, cancellandone l’origine storico-culturale. L’hummus che prima rappresentava il nemico, ora è parte integrante della storia di Israele e dei suoi menù dei ristoranti, in tutto il mondo.
Il cibo non è solo nutrimento. Ha altri significati: conseguenze e ramificazioni più profonde, che non possono essere ignorate. Se è vero che il cibo unisce, fungendo da “ponte tra popoli”, è anche vero che – in casi come questo – è anche discriminante, elemento di divisione e motivo di conflitto.